Non sono un medico, non sono un virologo né un infettivologo, per cui mi baso sui numeri che posso veder pubblicati sugli organi di stampa. Circa 80.000 contagiati e più o meno 2.700 morti a causa del Coronavirus.
Numeri sicuramente importanti se presi nel loro valore assoluto ma che se rapportati al numero totale della popolazione mondiale, diventano assolutamente insignificanti, almeno sotto il profilo statistico.
Eppure sulla Stampa di Torino, oggi (26 febbraio 2020), ho letto un articolo dal titolo “Coronavirus? Era peggio la Spagnola, “La più grande catastrofe del Novecento”
La Spagnola ha colpito più di 500 milioni di persone, uccidendo tra i 10 ed i 50 milioni di individui…
Mi chiedo quindi che cosa si nasconda dietro questa psicosi collettiva che sembra aver contagiato tutti, a tutti i livelli, tanto da farci parlare di pandemia e costringerci a convivere con isolamenti, quarantene, zone gialle, zone rosse…
La paura del contagio, vero o presunto, ci riporta violentemente a contatto con le nostre debolezze, in quanto organismi finiti ed imperfetti. Nell’epoca dell’uomo “no limits”, iper-produttivo, iper-efficiente, connesso 7/7-h24, per il quale si vorrebbe che tutto fosse possibile, all’interno di una società che insegue il mito dello sviluppo continuo ed infinito, alimentando il delirio di onnipotenza che ci autorizza a credere di essere superiori a qualsiasi altra forma di vita sul Pianeta, l’idea di poter essere contagiati ed annientati da un virus sconosciuto, può avere conseguenze destabilizzanti ma aprire anche nuove prospettive.
Le fragilità, le debolezze, i limiti, ci appartengono e ci caratterizzano in quanto individui, esseri unici e speciali. I nostri confini ci proteggono e ci definiscono, scongiurando una deprimente e spersonalizzante omologazione ad un modello che tende ad annullare sempre di più le differenze individuali.
Il panico generato dal Coronavirus, porta con sé il bisogno di riappropriarsi delle nostre parti ancora intimamente “umane”, la necessità di toglierci la maschera e di liberarci di un paradigma troppo ingombrante, al quale ci si conforma con sempre maggiore fatica.
La psicosi da contagio, in atto in questi giorni è un grido di rivendicazione di tutti noi che abbiamo riscoperto la nostra fragilità, la paura e la vulnerabilità insieme alla difficoltà ad integrare queste variabili nell’economia delle nostre frenetiche vite.
Il Coronavirus ci impone uno stop. Finora le priorità sono state definite dalla necessità di concentrare tutti i nostri sforzi nella direzione della massimizzazione dei profitti, trascurando noi stessi, il nostro corpo e la nostra salute, non prendendoci più cura dei nostri tempi e concedendoci sempre meno la possibilità di nutrirci reciprocamente, all’interno di relazioni significative.
Adesso cause di forza maggiore ci hanno sbattuto in faccia, con violenza e senza preavviso, la nostra reale condizione di esseri imperfetti e deboli e questo fa dannatamente paura ed espone all’incertezza ed all’ignoto ma porta con sé anche un forte messaggio di cambiamento. Offre l’opportunità di riprendereil controllo delle nostre vite, in cui possano convivere dolore e felicità, paura e coraggio, gioia e tristezza, dove ci sia spazio per la resa e per il riconoscimento dei limiti individuali, la possibilità di ritrovare tempi naturali, ove sia possibile rallentare quando necessario o semplicemente quando non si abbia voglia di correre.
La contingenza attuale ci pone di fronte alla possibilità di non essere più solo strumenti di produzione, ma di riappropriarci della nostra essenza umana, carica di potenzialità creative, in contatto più intimo con la Natura, di cui siamo soltanto parte, volenti o nolenti…