Laboratorio Esperenziale di Gruppo finalizzato al supporto di Docenti, insegnati d sostegno ed Educatori

A novembre prenderà forma un piccolo laboratorio esperienziale di gruppo finalizzato al confronto e al sostegno di docenti, insegnanti di sostegno ed educatori.
Si tratta di un ciclo di 5 Incontri eventualmente rinnovabile. Gli incontri avranno cadenza mensile e saranno di 2h, con un numero di minimo 3, massimo 6 partecipanti (agli interessati verrà richiesto di effettuare un colloquio conoscitivo/motivazionale preliminare).
Gli incontri si terranno il MARTEDÌ mattina, a partire dal 21/11/2023 dalle 10.00 alle 12.00 presso lo Studio di Psicologia e Psicoterapia di Via Gradisca 45, 10136 Torino.

DI COSA SI TRATTA

Si tratta di un laboratorio esperienziale che avrà l’obiettivo di sostenere ed aiutare chi è coinvolto in una relazione di supporto o aiuto, delicata e impegnativa, come docenti, insegnanti di sostegno ed educatori. Si tratta di un’esperienza svolta in un ambiente protetto, in un clima di ascolto empatico e accettazione reciproca senza giudizio.

OBIETTIVI E STRUMENTI

Ha il fine di prendersi cura della salute e del benessere di coloro che sono coinvolti in una relazione di aiuto o supporto, attraverso il raggiungimento di una buona consapevolezza personale, il confronto e la connessione con gli altri. Si tratta dell’opportunità, per ciascun partecipante, di esprimere, elaborare ed integrare i vissuti relativi all’attività di supporto e di individuare strumenti utili a trasformare in modo creativo e protettivo, per sé e per l’altro, la relazione con i ragazzi, con i colleghi, con le figure istituzionali. Rappresenta un’occasione di crescita personale, di riflessione, di relazione, di trasformazione e individuazione di alternative relazionali e comportamentali funzionali.
Il gruppo potrà avvalersi di diversi strumenti (ascolto empatico, immaginazione guidata, Role Playing, tecniche psico-corporee di rilassamento e mindfulness, esercizi polivagali etc.), a seconda delle esigenze del gruppo e delle fasi del percorso. Ci sarà uno spazio di ascolto per ciascun partecipante ed uno spazio di comunicazione, confronto e approfondimento in gruppo, con l’analisi di criticità specifiche e l’esplorazione delle risorse interne attivabili per affrontare le diverse situazioni.

COME PARTECIPARE

Per informazioni sui costi, sulla tipologia di percorso o per fissare un colloquio conoscitivo scrivere a:

studioprono.operto@gmail.com

Non è possibile partecipare ad un singolo incontro poiché risulta indispensabile la continuità per il raggiungimento degli obiettivi di benessere del singolo e del gruppo.

CHI CONDUCE

Tiziana Prono, psicologa, psicoterapeuta (n. iscriz. Ordine Psicologi Piemonte 2422,). Specializzata in Psicoterapia Adleriana nel 2004, nel corso degli anni ho proseguito la mia formazione trasformando ed arricchendo il mio orientamento di base con altri approcci teorici e tecnici (EMDR, Mindfulness, approccio contemplativo, tecniche psico-corporee etc.). In passato, ho prestato consulenza come psicologa del lavoro e come docente presso diversi corsi e master. Da più di vent’anni lavoro come psicoterapeuta individuale e di coppia, mi occupo di sostegno alla genitorialità e nel corso del tempo ho partecipato all’organizzazione di diverse iniziative volte alla sensibilizzazione e alla promozione del benessere psicologico.

Dalle Risorse Umane alle Persone, un investimento a lungo termine

Fare carriera all’interno di un’organizzazione strutturata, come può essere una realtà multinazionale, significa, nella maggior parte dei casi, abbandonare gradualmente e progressivamente le proprie competenze tecnico-specialistche, per andare a gestire sempre maggiori responsabilità, riferite a processi, flussi, persone, conti economici.

Un direttore di funzione, così come un CEO di una qualsiasi realtà medio-grande, non si occupa, o non dovrebbe, di tecnicismi e di specifiche attività, a meno che queste non vadano ad impattare in maniera significativa sul conto economico dell’azienda.

In un contesto economico sempre più competitivo e veloce, diventa vitale che le posizioni apicali dell’azienda siano ricoperte da persone che abbiano le competenze necessarie a matchare le esigenze di fatturato e di volumi, il contenimento dei costi, le tempistiche e le motivazioni ed i bisogni delle persone che lavorano all’interno dell’organizzazione. Gli esperimenti di smart working, di superamento dell’orario di lavoro, di settimana corta, che sempre più realtà stanno implementando, vanno proprio in questa direzione.

I costi per le aziende diminuiscono, la produttività aumenta e le persone sono più libere di gestire efficacemente il delicato equilibrio tra vita lavorativa e professionale.

Appare evidente che gestire con successo simili responsabilità, richieda competenze particolari, vision a lungo termine e soprattutto capacità di gestire lo stress in maniera estremamente efficace.

Questo è quello che “dovrebbe essere” in una società ideale. Purtroppo la realtà è spesso molto differente….

Capita frequentemente che ai vertici delle aziende ci si ritrovi ad interagire con persone prive del tutto o in parte delle caratteristiche sopra descritte, con conseguenze spesso catastrofiche a livello di clima interno.

Lavorare sul coinvolgimento e sulla motivazione dei dipendenti è infatti la sfida più difficile che spesso il Management si trova ad affrontare, perché richiede investimenti di tempo e di denaro, risorse sempre più rare e preziose, con ritorni economici certi ma non immediati.

Nella frenesia dei target da raggiungere, con budget sempre più risicati, sacrificare le “risorse umane” diventa una scelta tanto ovvia quanto miope. Quando questo avviene, i dipendenti sono sempre più spesso costretti a lavorare in contesti spersonalizzanti, dove la percezione del contributo individuale risulta sempre più intangibile.

Nel nome dell’efficientamento, i processi vengono parcellizzati in singole attività raramente tra loro interconnesse. Diventa sempre più difficile comprendere le motivazioni a monte delle proprie attività e ancor di più avere feedback sul proprio operato e la demotivazione aumenta…

In questo contesto il marketing delle risorse umane viene in aiuto alle aziende, sia dall’esterno, con piani di Employer Branding, sia dall’interno, con l’implementazione di programmi basati sul coinvolgimento e sulla motivazione delle risorse, molto spesso ideati a livello di Casa Madre, quindi non tarati sulla specifica realtà e forzatamente recepiti a livello locale, con un livello di engagement prossimo allo zero.

Purtroppo il risultato di questi interventi il più delle volte non fa altro che gettare benzina sul fuoco, creando un messaggio spesso totalmente distonico rispetto al contesto di riferimento. Si viene così a creare un corto circuito tra l’incapacità di superare le logiche di controllo, che continuano a caratterizzare e determinare le scelte gestionali, ed il messaggio veicolato, che fa riferimento ad una realtà, di fatto inesistente.

Capi (volutamente ho usato questo termine) e responsabili, che nella maggior parte dei casi non sono in grado di effettuare una lettura critica e costruttiva della situazione, privi della necessaria consapevolezza, indispensabile per una seria revisione di scelte e strategie gestionali, quando non del tutto incapaci di scegliere e di gestire, non potranno che decretare l’insuccesso di queste politiche.

È necessaria una scelta di coerenza. Il messaggio che si vuole trasmettere, tanto all’esterno quanto all’interno dell’organizzazione, deve essere allineato ai contenuti e comunicato con estrema chiarezza, tuttavia la coerenza è una scelta che richiede coraggio e lungimiranza….

Coerentemente con gli obiettivi sempre più sfidanti che le aziende perseguono, diventa indispensabile individuare i fattori chiave alla base del successo ed investire in essi senza riserve. È evidente che senza le persone giuste, tanto a livello manageriale quanto più a livello operativo, nessun traguardo di prestigio potrà mai essere raggiunto.

Le persone sono il fattore chiave di qualsiasi successo.

Persone motivate, coinvolte nel processo decisionale, adeguatamente valorizzate secondo una logica realmente meritocratica, basata su reali capacità di valutazione della capacità individuali e della performance, troppo frequentemente sostituita da un inappellabile giudizio personale sulla base di parametri puramente arbitrari e convinzioni soggettive, persone a cui sia data la possibilità di esprimere il proprio potenziale all’interno di percorsi di sviluppo professionalizzanti.

Persone e non semplicemente “risorse umane”. Il concetto di risorsa umana, al pari di qualsiasi altra risorsa, è intrinsecamente connesso all’idea di sfruttamento della risorsa stessa, fino al suo esaurimento ed alla sua sostituzione.

Soltanto spostato l’attenzione dalle “risorse umane” alle persone, le organizzazioni che realmente avranno il coraggio di operare questo cambio di tendenza, potranno contare su di un’inesauribile fonte di energia e guardare ad un futuro incerto con maggiore ottimismo.

Coronavirus e (ri)scoperta delle umane debolezze

Non sono un medico, non sono un virologo né un infettivologo, per cui mi baso sui numeri che posso veder pubblicati sugli organi di stampa. Circa 80.000 contagiati e più o meno 2.700 morti a causa del Coronavirus.

Numeri sicuramente importanti se presi nel loro valore assoluto ma che se rapportati al numero totale della popolazione mondiale, diventano assolutamente insignificanti, almeno sotto il profilo statistico.

Eppure sulla Stampa di Torino, oggi (26 febbraio 2020), ho letto un articolo dal titolo “Coronavirus? Era peggio la Spagnola, “La più grande catastrofe del Novecento”

La Spagnola ha colpito più di 500 milioni di persone, uccidendo tra i 10 ed i 50 milioni di individui…

Mi chiedo quindi che cosa si nasconda dietro questa psicosi collettiva che sembra aver contagiato tutti, a tutti i livelli, tanto da farci parlare di pandemia e costringerci a convivere con isolamenti, quarantene, zone gialle, zone rosse…

La paura del contagio, vero o presunto, ci riporta violentemente a contatto con le nostre debolezze, in quanto organismi finiti ed imperfetti. Nell’epoca dell’uomo “no limits”, iper-produttivo, iper-efficiente, connesso 7/7-h24, per il quale si vorrebbe che tutto fosse possibile, all’interno di una società che insegue il mito dello sviluppo continuo ed infinito, alimentando il delirio di onnipotenza che ci autorizza a credere di essere superiori a qualsiasi altra forma di vita sul Pianeta, l’idea di poter essere contagiati ed annientati da un virus sconosciuto, può avere conseguenze destabilizzanti ma aprire anche nuove prospettive.

Le fragilità, le debolezze, i limiti, ci appartengono e ci caratterizzano in quanto individui, esseri unici e speciali. I nostri confini ci proteggono e ci definiscono, scongiurando una deprimente e spersonalizzante omologazione ad un modello che tende ad annullare sempre di più le differenze individuali.

Il panico generato dal Coronavirus, porta con sé il bisogno di riappropriarsi delle nostre parti ancora intimamente “umane”, la necessità di toglierci la maschera e di liberarci di un paradigma troppo ingombrante, al quale ci si conforma con sempre maggiore fatica.

La psicosi da contagio, in atto in questi giorni è un grido di rivendicazione di tutti noi che abbiamo riscoperto la nostra fragilità, la paura e la vulnerabilità insieme alla difficoltà ad integrare queste variabili nell’economia delle nostre frenetiche vite.

Il Coronavirus ci impone uno stop. Finora le priorità sono state definite dalla necessità di concentrare tutti i nostri sforzi nella direzione della massimizzazione dei profitti, trascurando noi stessi, il nostro corpo e la nostra salute, non prendendoci più cura dei nostri tempi e concedendoci sempre meno la possibilità di nutrirci reciprocamente, all’interno di relazioni significative.

Adesso cause di forza maggiore ci hanno sbattuto in faccia, con violenza e senza preavviso, la nostra reale condizione di esseri imperfetti e deboli e questo fa dannatamente paura ed espone all’incertezza ed all’ignoto ma porta con sé anche un forte messaggio di cambiamento. Offre l’opportunità di riprendereil controllo delle nostre vite, in cui possano convivere dolore e felicità, paura e coraggio, gioia e tristezza, dove ci sia spazio per la resa e per il riconoscimento dei limiti individuali, la possibilità di ritrovare tempi naturali, ove sia possibile rallentare quando necessario o semplicemente quando non si abbia voglia di correre.

La contingenza attuale ci pone di fronte alla possibilità di non essere più solo strumenti di produzione, ma di riappropriarci della nostra essenza umana, carica di potenzialità creative, in contatto più intimo con la Natura, di cui siamo soltanto parte, volenti o nolenti…

Disagio Esistenziale

Intevista al Dott. Luca Operto sul Disagio Esistenziale come condizione di malessere originata dal confronto quotidiano con un contesto sociale privo di prospettive.

Attacchi di Panico e Disagio Sociale

Da Pan deriva la parola panico. Il panico, una paura incontrollata, ingestibile, che assale la persona e la immobilizza, la mette in uno stato d’incapacità di agire. Nella mitologia greca, il dio Pan, metà uomo e metà caprone, spirito di tutte le creature naturali, si aggirava nelle foreste, inseguiva le ninfe e metteva loro paura. Arrivava all’improvviso e ogni volta cambiava aspetto travestendosi, era quindi molto difficile sottrarsi agli incontri con lui perché lo si riconosceva sempre dopo. Poi, altrettanto repentinamente, se ne andava, lasciando dietro di sé un senso di ansia e di inquietudine per la paura di poterlo nuovamente incontrare, senza sapere quando né perché. Come una visita di Pan, apparentemente inspiegabile, l’attacco di panico compare all’improvviso, senza causa apparente: si comincia a tremare, aumenta il battito cardiaco, ci si sente soffocare e si ha il terrore di impazzire, di morire o di perdere il controllo. Anche in questo caso, nonostante queste sensazioni, non accade nulla di simile, non si muore, non si impazzisce e il controllo lo si perde solo momentaneamente a causa della grande paura che lo stesso panico provoca. Poi il panico sparisce ma rimangono l’ansia e l’inquietudine al pensiero che un evento simile possa ripresentarsi, senza nessuna possibilità di prevederlo. L’attacco di panico sembra proprio un attacco del dio Pan. La paura di ritrovarsi sue prede porta spesso le persone a mettere in atto condotte di evitamento e di isolamento, piuttosto che rischiare di doverlo di nuovo affrontare. Così si evitano luoghi specifici dove si potrebbe incontrarlo, situazioni particolari nelle quali il dio Pan potrebbe essere presente, relazioni con persone estranee perché potrebbe essere lui che si presenta sotto mentite spoglie. Ma se il dio Pan rappresenta l’istinto in tutte le sue forme, dobbiamo chiederci se la sensazione di panico che si prova durante un attacco non riguarda proprio la paura di queste forze naturali che abbiamo dentro ma che non riusciamo più ad integrare e con cui non ci è più possibile entrare in contatto. L’attacco di panico, incomprensibile, non inseribile quale evento della quotidianità di chi ne soffre, spiazza, sconvolge, distoglie e disorienta. La prima e spesso unica reazione è quella di scacciarlo e possibilmente di eliminarlo in maniera permanente, mettendo in atto condotte di evitamento, prendendo farmaci, andando in terapia per combattere ed eliminare rapidamente il sintomo, senza la capacità di fermarsi e stare nella situazione che l’ha generato, in maniera consapevole, per coglierne gli aspetti creativi di innovazione e di cambiamento. Facendo riferimento alla società ed al modello di vita del mondo occidentale, in cui si registra un’incidenza sempre maggiore di attacchi di panico, possiamo notare come la maggior parte delle persone trascorra quasi tutta la l’esistenza nel tentativo di omologarsi a modelli preconfezionati ed accettati a priori. Ci si ritrova a vivere all’interno di un mondo precostituito, preselezionato e preinterpretato, in cui l’individuo singolo non ha altra possibilità che l’accettazione e di conseguenza la perpetuazione del modello sociale dominante. Quello che viene richiesto in modo sempre più pressante, è di essere efficienti e produttivi. Produciamo e consumiamo in maniera compulsiva, consumando abbiamo necessità di produrre per rimpiazzare ciò che abbiamo consumato, svincolando l’atto di consumo dal bisogno reale ma anzi, facendo diventare bisogno primario il consumo stesso. Nasciamo, viviamo e moriamo in una società consumista, in cui tutto ciò che è considerato normale e socialmente accettato, è finalizzato al mantenimento del sistema, ciò che invece se ne discosta e lo mette in discussione, minacciandolo, diventa qualcosa di pericoloso, da contrastare e da spazzare via, o quanto meno di anomalo, da isolare e curare, come nel caso della malattia mentale. Il lavoro stesso, pilastro della nostra identità, è diventato il cardine di questo sistema. La maggior parte della forza lavoro nei paesi industrializzati occidentali, è impegnata per la grossa parte della propria vita lavorativa, in attività stressanti, routinarie, spersonalizzanti, finalizzate all’ottimizzazione della produzione o dei servizi ad essa correlati, in una logica dominata esclusivamente dal profitto, ricevendo in cambio semplicemente una maggiore possibilità di accesso al consumo. In questo modo si perde completamente di vista l’individuo e l’essere umano con tutte le sue potenzialità, negando ed allontanando sempre più la possibilità di una vita in armonia ed in equilibrio con la Natura, sia dentro che fuori di noi.

“Il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno…. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare” Friedrich Nietzsche

Ed è allora che (ri)entra in scena il dio Pan, in un contesto in cui mente e corpo sono sempre più staccati, il dio rivendica il suo diritto all’esistenza, nell’unica forma espressiva che conosce. Sorprende le persone all’improvviso, facendo perdere loro gli abituali punti di riferimento, al punto di pensare di morire o di impazzire. L’attacco di panico si configura come un attacco improvviso alla quotidianità di un’esistenza alienata, che fa sprofondare chi ne è soggetto in una dimensione dimenticata, sconosciuta e terrifica. D’altro canto, l’attacco di panico porta con sé una forte intenzionalità di contatto con le nostre parti arcaiche e dimenticate che ci connettono intimamente alla Natura, di cui facciamo ancora parte. L’attacco di panico, porta con sé un messaggio talmente forte di disperazione, solitudine ma anche di speranza, da essere incomprensibile nella sua immediatezza; utilizza un registro sconosciuto e indecifrabile che lascia spazio soltanto all’angoscia.

“Eppure chi soffre e manifesta il sintomo, è in qualche modo una persona che protesta, che insorge contro l’alienazione, pur nella confusione e nel senso di disfatta. Chi soffre di attacchi di panico sta tentando, nel paradosso del terror panico, di contattare quella parte profonda di sé che non vuole rinunciare al sentimento panico, linfa vitale dell’armonia del rapporto tra gli esseri umani e la natura. Il dio Pan ne era la concretizzazione vivente: e tutto il mondo oggi ne avverte la nostalgia ed il terrore” (Rasicci Luciana – L’epoca del panico – CLUEB 2011 pag. 10)

Il panico rappresenta in maniera drammatica il fallimento di un modello sociale ed economico, tuttavia porta con sé enormi potenzialità nella direzione del suo superamento, che passa dalla percezione della propria debolezza e dal riconoscimento ed accettazione delle fragilità. È necessario andare oltre l’esperienza soggettiva di vuoto e di solitudine, per essere in grado di cogliere l’opportunità di rimettere in discussione e riconsiderare i propri bisogni e le proprie motivazioni, per liberarsi dagli introietti sociali che pregiudicano il nostro benessere, condizionando le nostre risposte. Ridefinire e riconoscere i nostri limiti ci offre la possibilità di sperimentare un’alternativa sostenibile, in cui ci sia spazio per la lentezza, il silenzio, l’ascolto, la rinuncia all’ossessiva ricerca di stimoli. Il sapersi abbandonare, insieme alla capacità di stare all’interno di un campo sociale complesso ed incerto, dal quale emerge il bisogno di costruire e favorire legami sociali che consentano processi di identificazione e differenziazione e che permettano la creazione di appartenenze sufficientemente solide e flessibili, in grado di sostenere nelle difficoltà, sono alla base di un incontro maggiormente adattato e creativo tra organismo e ambiente, che renda possibile entrare in contatto con le nostre componenti istintuali e arcaiche, che ci connettono intimamente alla natura, di cui facciamo parte.

Il sasso per la minestra

In un villaggio una donna ebbe la sorpresa di trovare sulla soglia di casa uno straniero piuttosto ben vestito che le chiese qualcosa da mangiare.

“Mi dispiace,” ella rispose “al momento non ho in casa niente.”

“Non si preoccupi,” replicò lo sconosciuto amabilmente” ho nella bisaccia un sasso per minestra; se mi darete il permesso di metterlo in una pentola di acqua bollente, preparerò la zuppa più deliziosa del mondo. Mi occorre una pentola grande, per favore.”

La donna era incuriosita.

Mise la pentola sul fuoco e andò a confidare il segreto del sasso per minestra a una vicina di casa. Quando l’acqua cominciò a bollire, c’erano tutti i vicini, accorsi a vedere lo straniero e il suo sasso.

Egli depose il sasso nell’acqua, poi ne assaggiò un cucchiaino ed esclamò con aria beata: “ Ah, che delizia! Mancano solo delle patate.”

“Io ho delle patate in cucina,” esclamò una donna.

Pochi minuti dopo era di ritorno con una grande quantità di patate tagliate a fette, che furono gettate nel pentolone.

Allora lo straniero assaggiò di nuovo il brodo.

“Eccellente,” gridò.

Poi però aggiunse con aria malinconica: “Se solo avessimo un po’ di carne, diventerebbe uno squisito stufato.” Un’altra massaia corse a casa per andare a prendere della carne, che l’uomo accettò con garbo e gettò nella pentola.

Al nuovo assaggio, egli alzò gli occhi al cielo e disse:” Ah, manca solo un po’ di verdura e poi sarebbe perfetto, veramente perfetto!”

Una delle vicine corse a casa e tornò con un cesto pieno di carote e cipolle.

Dopo aver messo anche queste nella zuppa, lo straniero assaggiò il miscuglio e dichiarò in tono imperioso: “Sale e salsa.”

“Eccoli.” disse la padrona di casa.

Poi un altro ordine: “ Scodelle per tutti.”

La gente corse a casa a prendere le scodelle.

Qualcuno portò anche pane e frutta.

Poi sedettero tutti a tavola, mentre lo straniero distribuiva grosse porzioni di zuppa.

Tutti provavano una strana felicità, ridevano, chiacchieravano e gustavano il loro primo vero pasto in comune.

In mezzo all’allegria generale, lo straniero scivolò fuori silenziosamente, lasciando il sasso miracoloso affinché potessero usarlo tutte le volte che volevano per preparare la minestra più buona del mondo.

L’efficacia del Gruppo nell’epoca della crisi

Viviamo in un momento storico e sociale molto difficile. Nell’epoca della crisi e del panico, di fronte alle problematiche economiche e politiche ed ai relativi risvolti sociali, emergono con forza il bisogno di aggregazione, appartenenza, di condivisione e solidarietà tra le persone. In questo contesto è importante più che mai, valorizzare e promuovere il benessere, nella maniera più efficace ed economica ed oggi, come in passato, il gruppo risulta essere uno degli strumenti migliori e più potenti. Il lavoro di gruppo può essere concepito come un “incubatore di idee e di prospettive”, qualificandosi come uno strumento capace di stimolare modi nuovi di affrontare ed approfondire tematiche di diversa natura, in un’ottica positiva e creativa. E’ la fucina entro la quale possono prendere forma nuove strade e nuove possibilità, perseguibili nel qui ed ora, in un clima di fiducia ed accettazione reciproca. La persona cosi’ non solo può acquisire una maggiore consapevolezza delle proprie risorse e dei propri meccanismi di funzionamento ma può mettere a frutto in maniera creativa le proprie capacità ed utilizzarle al meglio, sbloccando risorse preziose ed estremamente utili, soprattutto in un contesto sociale e relazionale caratterizzato da  incertezza, frammentarietà e mancanza di prospettiva. Il gruppo mobilita le emozioni, dando loro una direzione ed un significato. Le energie del gruppo sostengono l’individuo e le energie dell’individuo sostengono il gruppo, offrendo la possibilità di affrontare argomenti diversi, di tipo personale e/o relazionale, in funzione dei bisogni e delle riflessioni che man mano emergono dal gruppo stesso (ansia, stress, autostima, lavoro, coppia, famiglia, crisi, problematiche sociali, relazioni interpersonali etc….) e che nel gruppo si trasformano e danno avvio ad alternative potenziali.